Foglie verde smeraldo. Incontri con il tè giapponese

di Massimo Martinis – Laureato in Architettura al Politecnico di Milano, ex-barman e torrefattore di caffè, si occupa di tè dal 2004. Dopo una breve esperienza lavorativa in Giappone, ha concentrato il suo interesse verso la cultura del tè nipponica. Oggi tiene corsi di approfondimento sulla cultura del tè in Italia.

Ero in Giappone da pochi giorni. Appena arrivato a Tokyo avevo preso il treno Shinkansen per andare a trovare la mia amica Sonoko a Fukuoka.
Il giorno successivo ero già in partenza per Okayama, dove avrei incontrato la mia famiglia ospite, gli Yoshihara. Una famiglia metà giapponese e metà americana che gestisce una fattoria sulle colline della prefettura di Okayama.
Da qualche anno partecipano ad un programma di scambio internazionale che coinvolge molti ragazzi stranieri. Si lavora per loro e in cambio si hanno vitto e alloggio.
Noi lavoravamo dalle 5 del mattino alle 5 di sera, sia all’interno della fattoria che all’esterno, nei campi. Raccogliendo verdura, tagliando l’erba, costruendo recinzioni, allevando pulcini… Qui ho conosciuto una ragazza francese che anche lei, in Francia, partecipava con la sua famiglia a questo scambio culturale. I suoi ospiti raccoglievano le mele per fare il sidro e aiutavano in casa, magari due o tre ore al giorno, e poi avevano il resto della giornata libera per poter fare delle passeggiate, andare in paese a fare qualche acquisto, oppure semplicemente studiare e rilassarsi.
Nei paesi orientali, Giappone compreso, la concezione dello scambio è molto diversa: sono richieste molte ore di lavoro e gli ospiti non sono considerati “turisti” ma contribuiscono attivamente al funzionamento della fattoria.

La fattoria della famiglia Yoshihara sulle colline della prefettura di Okayama.

Primo incontro. Il tè tostato di Kurashiki.
La prima cosa che mi ha colpito della cultura del tè nel Giappone contemporaneo è che la bevanda più consumata è il caffè.
Bicchieroni di caffè lungo americano, rigorosamente senza zucchero.
La famiglia Yoshihara che ci ospitava era dotata di un macinacaffè elettrico e di una classica macchina da caffè in stile americano con il filtro di carta e la caraffa di vetro. La cosa che assolutamente mancava in quella casa era il tè. C’erano bottiglie di olio toscano, c’era il pane da toast, il burro, le salsicce. Sembrava tutto fuorché una tradizionale famiglia giapponese. Eppure, questa è la norma nel Giappone di oggi. Molte antiche usanze sono cambiate dopo la seconda guerra mondiale, con l’influenza massiva della cultura occidentale.
Insieme agli altri ragazzi, stavamo preparando il piccolo furgoncino bianco di Shuzo, riempiendolo fino all’inverosimile. Caricavamo soprattutto gli scatoloni pieni di brownies e le verdure raccolte nella fattoria il giorno prima. Poi bisognava anche caricare la cucina da campo e le padelle: eravamo abbastanza indaffarati alla Ototoghisu Farm quella domenica mattina. Vi parlo del furgoncino bianco carico di cose, perché è stato quel giorno che è avvenuto il mio primo incontro con il tè in Giappone.
Dopo aver sistemato il furgone, quella mattina ci siamo recati a Kurashiki, una cittadina a pochi chilometri da Okayama, per partecipare al tradizionale mercatino alimentare. Il passaggio tra una città e l’altra in Giappone non si nota, perché la stragrande maggioranza dei centri abitati sono collegati uno all’altro senza soluzione di continuità. Non bisogna però farsi l’idea di un paese totalmente urbanizzato.
Il mare e le colline fanno da barriere invalicabili e sacre, che accerchiano le città. Si passa dal caos delle strade illuminate dalle luci al neon, ai boschi incontaminati, disseminati di piccole statuette votive, lapidi nascoste nei luoghi più inaccessibili e portali sacri divorati dall’edera. Questa separazione tra città e natura si avverte anche quando si inizia a parlare di tè.
Se il caffè è la bevanda di tutti i giorni, quella più consumata, il tè rimane comunque il simbolo della tradizione. Addentrandosi nella cultura giapponese, così come in un bosco di bambù, si possono trovare ancora le tradizioni di un tempo. Mi accorsi che bere il tè non era semplicemente un’azione quotidiana ma richiedeva invece un’attenzione particolare.

La famiglia Yoshihara e alcuni ospiti aderenti allo scambio internazionale.

Il tè in Giappone va bevuto con serenità, dimenticando il mondo esterno e aprendo la mente e il corpo al suo rito. In questo e in molte altre cose, il Giappone differisce dalla Cina.
In Cina, per la fortuna di noi appassionati, il tè è bevanda quotidiana, conviviale, popolare. In Giappone il tè è rito, allontanamento dal mondo, esperienza intima. Ma ecco come mi trovai faccia a faccia con il tè, quel giorno a Kurashiki: mentre passeggiavo per le vie della cittadina, insieme alla mia nuova amica Ina, mi imbatto in uno strano macchinario situato vicino all’ingresso di un negozio.
Il profumo proveniente da quel posto era incredibile. Il macchinario serviva per la torrefazione del tè. In pratica si introduce il tè verde (in questo caso un bancha), dalla sommità del macchinario tramite un imbuto; le foglie finiscono in un cestello rotante riscaldato (forno a tamburo) e qui il tè viene tostato.
Finito il processo di torrefazione il tè fuoriesce dai bordi del cestello e scivola fino ad una vaschetta di raccolta. Non potevo resistere: col permesso del proprietario, misi le mani e il naso all’interno di un piattino che conteneva le foglie appena torrefatte. Quell’aroma vegetale e arrostito, quell’incredibile profumo pungente e morbido, non lo dimenticherò mai.
Il mio primo incontro con il tè in Giappone era avvenuto. Anziché partecipare alla famosa cerimonia cha no yu (1), ho scoperto una torrefazione di tè bancha nel bel mezzo di una via affollata!

Secondo incontro. La festa del raccolto.
La settimana successiva, ci siamo recati al mercato di Okayama. Città molto più grande e moderna, ma decisamente meno pittoresca. Il vanto degli abitanti è il meraviglio- so giardino Koraku-En. Secondo le guide turistiche uno dei tre più belli del Paese.
Si racconta che i primi semi di tè, importati dalla Cina dai monaci buddisti, furono seminati proprio qui. Si tratta di una leggenda, ma fa comunque piacere notare l’affetto che i cittadini di Okayama nutrono verso il loro bellissimo giardino e verso la pianta del tè.
Ad un certo punto, mentre mi trovo sopra un ponticello di legno, mi accorgo che su una collinetta all’inter- no del grande giardino si sta svolgendo una festa: musiche, gente vestita con abiti tradizionali e molti curiosi che si fermavano ad osservare. Scopro, con qualche difficoltà, che si trattava della cerimonia per il raccolto agricolo. Alcune ragazze vestite con kimono colorati, si dispongono in una fila ordinata di fronte a dei cespugli verde smeraldo. In effetti bastava un’occhiata per accorgersi che si trattava di piante del tè.
La maggior parte dei curiosi era venuta lì apposta per questo momento. Le ragazze iniziano la raccolta delle foglie. Con gesti delicati ma decisi, raccolgono le foglie più in alto, ma solo quelle che contengono le gemme non ancora schiuse. Finita questa esibizione si offre la possibilità al pubblico di passare tra i filari per poter raccogliere il proprio tè. Si paga una piccola quota ad un ragazzo in kimono che consegna dei cestini per la raccolta.
Poi si viene indirizzati verso uno dei filari e a quel punto si hanno circa 20 minuti per raccogliere più foglie possibili. In 20 minuti avrò raccolto una manciata di foglie. Che delusione! Muovere pollice e indice per staccare le gemme, senza rovinare le altre foglie, non è così semplice come sembra, e ancor più difficile è individuare le foglie giuste. Quel giorno la mia grande stima verso le raccoglitrici, che riescono a riempire enormi ceste in poche ore, è sicuramente aumentata.
Considerando che il Giappone è uno dei paesi più industrializzati del mondo e uno dei pochi in Asia dove il tè viene raccolto prevalentemente con sistemi meccanizzati, vedere una cerimonia propiziatoria, come poteva accadere centinaia di anni prima, fa sicuramente uno strano effetto. Questa dissociazione evidente tra modernità e tradizione, si ritrova in gran parte della cultura giapponese, così come nella sua urbanistica e nelle sue dispense casalinghe piene di caffè.
Boschi sacri accanto a fabbriche, lattine di bibite gassate al gusto ciliegia accanto a sacchi di riso integrale, raccoglitrici in kimono e grandi mietitrebbia.
Tornato alla fattoria degli Yoshihara, ho provato a trasformare le foglie fresche in qualcosa di simile ad un tè bianco (o giallo). Le foglie infatti sono appassite naturalmente nell’arco di pochi giorni. Siccome il risultato non sembrava soddisfacente, le ho successivamente passate in padella per una breve cottura.
Il risultato è stato pessimo. Il gusto era amaro e il profumo poco intenso.
Con questo esperimento fallito ho anche imparato ad apprezzare i coltivatori che con grande abilità trasformano quelle bellissime foglie in un tè buono e profumato.

Terzo incontro. All’ombra dell’Airone Bianco.
Ma è il terzo incontro col tè quello che più mi ha entusiasmato. In una seconda visita a Kurashiki, scopro che tra i vicini della famiglia Yoshihara, c’è anche una coppia giapponese che vende e prepara caffè.
Il caffè è acquistato verde dall’estero e poi torrefatto e miscelato da loro.
Lo vendono per il consumo casalingo ma offrono anche una sorta di servizio bar che comprende la preparazione del caffè “filtrato” all’americana e qualche dolce autoprodotto. Curiosando tra i loro prodotti scopro che vendono anche tè. Tè coltivato da loro, in una piccola fattoria, poi raccolto e lavorato interamente a mano.
La cosa strana è che si tratta di tè nero. A livello commerciale infatti preferiscono adeguarsi alle mode occidentali per risultare più interessanti ai clienti giapponesi alla ricerca di prodotti “esotici”.
Semplificando potremmo dire che attuano una strategia simile e opposta a quella dei commercianti europei, che invece propongono cibi e bevande orientali ormai di gran moda. Il tè nero di questi due ragazzi giapponesi è unico. Ha un profumo dolce e morbido, che ricorda la vaniglia ma con qualche insolita nota vegetale e marina tipica del tè gyokuro.
Un prodotto che è chiaramente frutto del territorio di origine e che lo rende speciale, non solo per i consumatori giapponesi, abituati al tè verde, ma anche per gli occidentali, abituati ai sapori corposi e rotondi dei tè neri indiani.
Tuttora io e questi giovani produttori cerchiamo di rimanere in contatto e ogni tanto chiedo loro di mandarmi un assaggio di quel preziosissimo e bizzarro tè nero. Purtroppo la loro produzione è talmente limitata che spesso riescono a mandarmene solo un assaggio di 20 grammi una volta l’anno.
Dopo circa un mese passato nella fattoria Ototoghisu, mi sono trasferito da un’altra famiglia ospite, in un’altra città, per la precisione a Mebashi, uno dei capoluoghi di prefettura a nord-ovest di Tokyo. Durante il viaggio di trasferimento, mi sono fermato a Himeji, famosa soprattutto per il suo enorme castello, soprannominato “Airone Bianco”, ultima delle città del meridione giapponese, prima di entrare nella grande conurbazione di Kobe-Osaka.
Ho deciso di partecipare alla mia prima cerimonia cha no yu proprio all’ombra delle imponenti fortificazioni dell’Airone Bianco. Inizialmente le ragazze in yukata (il kimono estivo) non capivano per quale motivo fossi lì.
Nel mio improvvisato giapponese e nel loro stentato inglese, abbiamo avuto qualche incomprensione: loro non immaginavano che un occidentale volesse davvero partecipare alla cerimonia, e io invece non ritenevo che fosse una richiesta così strana. Dopo un lungo periodo passato in una sala d’attesa mi hanno fatto entrare in un’altra stanza dove era stato allestito un braciere per scaldare l’acqua.
Tutti i presenti si sono inginocchiati ai lati della stanza rivolti verso il braciere. Dopo una lunga e scenografica attesa, si è palesata la “maestra di cerimonia”. Di questo momento però ricordo soprattutto due cose: la commovente gentilezza dei miei vicini che cercavano di insegnarmi le fasi del rito e che correggevano i miei movimenti, senza rimprovero e con incredibile discrezione; e il dolore atroce alle gambe, dopo essere stato quasi un’ora inginocchiato. Alla fine della cerimonia alcuni vecchietti giapponesi sorridevano vedendomi in difficoltà a rialzarmi in piedi senza aiuto, mentre loro, apparentemente artritici e stanchi, balzavano in piedi senza alcuno sforzo. Questo mi ha insegnato che il tè è anche pazienza e sacrificio. Dopo questa esperienza mi sono rimesso in viaggio per recarmi dai miei nuovi ospiti. In realtà la famiglia era composta soltanto dal proprietario Shimizu San, e dal suo cagnolino marrone Chiko.
Purtroppo il clima di quella regione, situata 500 km più a nord di Okayama e lontana dal mare, non consente la coltivazione del tè. I prodotti della terra con cui avevo a che fare erano soprattutto i porri e le ume, che sono delle piccole albicocche aspre. Di solito questi frutti sono raccolti ancora acerbi e messi in salamoia, diventando umeboshi (2). Con queste umeboshi si condiscono molti piatti, soprattutto il riso bianco. Anche in questa fattoria, nonostante l’età del padrone di casa, il tè era assente nel- la dispensa di casa. Tutte le mattine la sua colazione era una semplice fetta di pane tostato, un’insalata di cetrioli e pomodori e una mug fumante di caffè americano, come al solito senza zucchero.

Massimo, in un momento di relax, con la famiglia ospite, nella fattoria a nord di Okayama, durante la raccolta delle ume.

Quarto incontro. Foglie verde smeraldo.
Per incontrare nuovamente il tè sono dovuto andare più a sud, a Shizuoka; ne è però valsa la pena perché è stato uno dei momenti più emozionanti del mio viaggio. Questa città di mare, non molto distante da Tokyo, è famosa per la coltivazione di tè. Si possono visitare le piccole fabbriche di tè, i negozi specializzati, i grossisti che esportano all’estero e, una volta all’anno, partecipare alla famosa asta del tè, in cui gli “affinatori”, comprano le partite di tè grezzo appena raccolte dai giardini della prefettura. Il profumo di foglie di tè pervade l’aria. Anche le aiuole degli spartitraffico sono arbusti di tè. Esiste anche una “via del tè” dove sono concentrati i negozi dei produttori.
La cosa che però mi ha emozionato più, è stato visitare la zona coltivata a tè sulle colline adiacenti la città. Basta allontanarsi di pochi chilometri dal centro urbano e ci si ritrova circondati da terrazzamenti verdi, che come pacifiche onde verdi smeraldo si riversano verso la pianura. Decine di ettari di Camellia Sinensis, disposta in filari dalla forma perfetta, adeguatamente rasati e curvati. Quel giorno non mi sono lanciato in complicate ricerche e osservazioni. Semplicemente ho passeggiato, per ore, in mezzo a queste piante. Ogni tanto si vedevano contadini che tagliavano gli arbusti con le macchine potatrici e raccoglievano enormi sacchi pieni di foglie. Piccoli trattori, col rimorchio carico di foglie si spostavano dalle piantagioni verso le fabbriche sparse qua e là. Mi imbatto infine in uno di questi modesti luoghi di produzione del tè. Fuori dal capannone c’è un banchetto che espone il tè dell’anno appena prodotto, il shincha (tè nuovo), una specie di tè novello, che spopola tra gli appassionati e che pur assomigliando molto nell’aspetto e nel processo produttivo, al sencha, si distingue per l’infuso torbido e per il gusto marcatamente erbaceo. Mi addentro in questo capannone e “colgo sul fatto” un signore e una signora giapponesi intenti a produrre il tè. Un grande macchinario con lunghi nastri trasportatori, si snoda all’interno dell’edificio e trasforma le foglie di tè fresche in delizioso shincha. Le foglie vengono cotte con brevi getti di vapore e poi pressate e arrotolate più volte.
Nonostante la loro iniziale diffidenza e la ovvia difficoltà linguistica, i due simpatici “operai del tè” mi mo- strano tutti i macchinari e mi fanno seguire tutte le fasi del procedimento. Mi spiegano in poche parole le particolarità del loro tè (un tè fukamushi, cioè con una fase di vaporizzazione più lunga che conferisce un gusto erbaceo più deciso) e mi invitano ad acquistarne un po’. Dopo aver afferrato con due mani il loro biglietto da visita (considerato un gesto di educazione) e salutato con un inchino, mi allontano da quella che sarà la mia ultima visita ad un luogo del tè giapponese. Ovviamente il mio viaggio è continuato e mi ha fatto incontrare il tè in altre occasioni, ma il mio pensiero sarà sempre vicino alle persone che mi hanno regalato queste emozioni: il commerciante che mi ha fatto annusare il suo bancha arrostito, le ragazze in kimono che raccolgono il tè, i ragazzi del mercato che mi hanno fatto assaggiare il loro tè nero, i produttori di shincha che mi hanno mostrato con orgoglio il loro tè appena cotto. Arrivato alla conclusione del mio personale percorso del tè in Giappone, mi accorgo di essere appagato. Dopo molte tazze bevute, scovate nei luoghi più insoliti, lontano dalle vie trafficate dei caffeinomani giapponesi, dopo molti inchini e sorrisi, che spesso sono molto più significativi delle parole, e dopo essermi riempito gli occhi di questo mare verde smeraldo costituito di tante piccole foglie, mi congedo provvisoriamente dal Giappone e dal tè.

Coltivazioni nell’area di Shizuoka

Note:

(1) Il Cha no yu (茶の湯, “acqua calda per il tè”), si riferisce alla cerimonia del tè giapponese. A volte è indicata anche come Chadō o Sadō, (茶道, “via del tè”).

(2) Prugna giapponese messa sotto sale.